un gioiello di alta tecnologia ad elevato gradiente poetico, dove per la prima volta in maniera convincente la sostenibilità esce fuori dal gergo degli ecologisti e dei costruttori edili per entrare organicamente nell'arte del costruire. Visto da lontano, infatti, il segno distintivo del museo è una sorta di prato sospeso al posto del tetto: una leggera ondulazione di colline erbose alta circa dieci metri sul suolo, come se un lembo di parco fosse stato sollevato per nascondervi sotto il mondo della scienza. Non è un pensiero nuovo questo per l'architetto genovese: a Basilea, ad esempio, il Paul Klee Zentrum si presenta con l'aspetto di un campo coltivato, appena sollevato in un gioco di onde che estendono l'orografia caratteristica del luogo, nascondendo alla vista la struttura del museo. Mentre in Svizzera però le sale espositive sono calate in grandi caverne sottoterra, in California è il prato che levita sopra terra, creando un'intercapedine luminosa che dall'atrio si protende in direzione delle grandi sfere del Planetario e dell'Acquario, in una drammatica sequenza di spazi bassi e di vuoti altissimi. Come al solito per Piano, l'idea del progetto non nasce mai da una forma precostituita, ma da un processo di interpretazione del luogo e di individuazione dell'anima dell'architettura. Quando nel 1999 fu invitato a un colloquio con i curatori e il direttore del Centro, fu l'unico ad arrivare senza una presentazione del futuro lavoro: davanti allo sguardo perplesso dei suoi interlocutori, raccattò dal tavolo dei fogli di carta e, ammettendo che non aveva nessuna idea di come sarebbe potuta essere l'architettura del nuovo museo, si mise a tracciare con pochi segni a matita le idee di base di un programma da seguire. Prima di tutto, la convinzione che bisognasse trovare un modo più adeguato di comunicare al pubblico il senso della ricerca scientifica. Poi la necessità che per convincere i visitatori dell'importanza di rispettare e comprendere la Natura, l'edificio stesso doveva essere come un laboratorio per la dimostrazione che si può costruire senza ferire la Terra. Per questo, la linea di colmo del museo non avrebbe sorpassato i dieci metri d'altezza e, come un tappeto flessibile, avrebbe girato attorno alle alte sfere del planetario e dell'acquario, costituendo la base per una serra all'aria aperta dove trapiantare alcune delle essenze originarie della California, prima che l'uomo intervenisse per trasformare il suolo arido della baia in un giardino.Nell'architettura di Piano il tetto è sempre stato una componente essenziale per la definizione degli spazi e dei volumi: nella Fondazione Bayler di Basilea, ad esempio, le sale delle collezioni sono distribuite in un vuoto ininterrotto, coperto da una lastra sottile di metallo e di doghe mobili, che come palpebre di un occhio si aprono e chiudono al riverbero del sole. A San Francisco il tetto è però vivente, metafora costruita di un'architettura che si presenta come un organismo capace di respirare e di trasudare: rifiutando la pratica modernista del contenitore sigillato, il Centro non ha aria condizionata e la caratteristica più rivoluzionaria è costituita dalle maniglie delle grandi vetrate dei laboratori, apribili alle brezze della baia. «I musei - spiega Piano - di solito sono opachi e pieni di luoghi chiusi al pubblico. Sono il regno delle tenebre dove si entra con un certo timore. Qui siamo nel mezzo di un parco straordinario e non ha senso chiudersi dentro, tagliando fuori la natura».Anche il tetto infatti è percorribile: e immergendosi nell'osservazione dell'habitat naturalistico ricreato in alta quota, il visitatore avrà la sensazione di cavalcare il dorso di un docile drago.
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